1. Alimentazione & Sport

    6 maggio 2011 by Emiliano Adinolfi

    Esiste un nesso evidente fra alimentazione e attività fisica, infatti una adeguata nutrizione è alla base di ogni prestazione fisica.

    E’ grazie alla liberazione dell’energia contenuta negli alimenti che noi possiamo compiere il lavoro fisico. Gli alimenti sono costituiti di carboidrati, proteine e grassi, oltre che di sostanze come vitamine, minerali e altro. I primi, chiamate macronutrienti, sono responsabili di fornire energia e costruire “l’impalcatura” del nostro organismo. I carboidrati forniscono l’energia necessaria per le normali attività della vita quotidiano e per lo sport, inoltre permettono di “risparmiare” le proteine come substrato energetico e funzionano da innesco per il metabolismo dei grassi.

    Si ritrovano nei cereali, nella frutta, nella verdura ma anche nelle foglie, corteccie e tronchi degli alberi (cellulosa).

    Le proteine, presenti nei tessuti animali e vegetali, sono costituite da un numero variabile dei 20 aminoacidi. Otto di questi aminoacidi non possono essere sintetizzati dal nostro organismo e pertanto devono essere necessariamente introdotti con la dieta. Le proteine possono contenere tutti e 20 gli aminoacidi e sono dette nobili, le altre in cui manca qualcuno di questi aminoacidi sono dette incomplete.

    Proteine nobili si ritrovano nelle uova, latte, carne,formaggio. Le proteine come già accennato hanno funzione strutturale, costituiscono pertanto la struttura portante delle cellule e dei tessuti. Solo in condizioni particolari, ovvero quando le scorte di carboidrati dell’organismo sono particolarmente basse, il catabolismo proteico viene utilizzato per scopi energetici. I grassi o lipidi che si ritrovano sia nei vegetali che nei tessuti animali, si distinguono in semplici, composti e derivati. La loro funzione è quella di fornire energia durante il lavoro muscolare, oltre che svolgere funzione di protezione meccanica per gli organi e i tessuti e isolamento termico nell’esposizione al freddo. Gli acidi grassi saturi che si ritrovano nelle carni, nel tuorlo e nei formaggi, se assunti in elevate quantità aumentano la concentrazione di colesterolo, a sua volta messo in relazione come fattore di rischio per lo sviluppo di coronopatie.

    Questo è in estrema sintesi il ruolo dei nutrienti, e le loro fonti principali di approvvigionamento. Chiaramente l’atleta agonista, ma anche la persona che pratica sport per diletto, deve adeguare l’ alimenazione al tipo di attività svolto, al periodo agonistico e anche alle proprie abitudini di vita.


  2. Calcio Totale Rinus Michels

    27 aprile 2011 by Emiliano Adinolfi

    IL CALCIO TOTALE

    Rinus Michels è stato l’inventore del calcio totale. Recentemente scomparso (2005), il “generale” – come era soprannominato – stabilì che i giocatori della sua squadra dovevano diventare il più possibile universali, capaci cioè di ricoprire vari ruoli.

    Da questo presupposto, i  difensori tornavano a marcare a zona sfruttando al massimo la tattica del fuorigioco; i centrocampisti e gli attaccanti pressavano a tutto campo i portatori di palla avversari; ogni calciatore doveva saper attaccare e difendere la sua zona di competenza. La disposizione in campo che predilesse fu il 4-3-3.

    La nuova filosofia di copertura degli spazi si sostituisce al concetto di contrapposizione individuale, tipico del catenaccio.

    Nel 1999, la Fifa ha eletto Michels allenatore del secolo e, nel 2002, la UEFA gli ha concesso l’Ordine di Merito per “il contributo alla crescita e alla storia del calcio”.

    PALMARES

    Finalista Coppa del Mondo 1974 Olanda
    1 titolo Europeo: 1988 Olanda
    1 Coppa Campioni1 vinta Ajax 4-1 1971 Ajax – Panathinaikos 2-0
    4 titoli nazionali con l’Ajax: 1966, 1967, 1968, 1970
    1 titolo con Barcellona: 1974
    3 coppe d’Olanda con l’Ajax: 1967, 1970, 1971
    1 Coppa del re di Spagna con il Barcellona: 1978
    1 Coppa di Germania con il Colonia 1983


  3. Julio Velasco: “Lo spirito di squadra è la chiave del successo”

    1 aprile 2011 by Emiliano Adinolfi

    Michael Jordan, Scottie Pippen, Dennis Rodman riuniti in una stanza arredata con totem e altri oggetti indiani. I Chicago Bulls raccolti intorno al loro coach, Phil Jackson, che legge loro brani dal “Libro della giungla” di Rudyard Kipling per preparare la squadra alla partita. Una frase del romanzo ricorre più spesso: “La forza del lupo è il branco, e la forza del branco è il lupo”. Strane coincidenze accadono. “E’ uno dei miei libri preferiti”, commenta Julio Velasco (il plurivincitore con l’ItalVolley), “va però detto che quando il lupo diventa vecchio, e non è più in grado di cacciare, il branco lo uccide. Questo è un po’ quello che succede a tutti i leader”.

    Perché secondo lei il mondo imprenditoriale parla sempre più spesso di gioco di squadra?

    “Per una serie di fattori che stanno coinvolgendo la nostra società: per la grande competitività, per la crescente complessità, per la concentrazione a livello imprenditoriale, e infine, per la globalizzazione”.

    Come valuta il mondo aziendale sotto il profilo dello spirito di squadra?

    “Mi sembra di capire che nella nostra società, in azienda, la cultura di squadra non sia molto diffusa. Tutti insistono a voler parlare di gioco di squadra, che è visto come un imperativo morale da raggiungere. Ciò equivale a dire: dobbiamo essere dei bravi ragazzi, dobbiamo avere spirito di squadra. Questo è positivo ma non sufficiente. Un mero concetto di solidarietà: tutti per la causa”.

    Ma allora il gioco di squadra è imprescindibile?

    “E’ necessario inquadrare il problema. Io non sono d’accordo con l’affermazione che senza la squadra non si fa nulla. Il mondo imprenditoriale è pieno di uomini che da soli, usando gli altri come pedine operative, hanno fatto grandi cose. Ritengo però che gli affari, come tante altre attività, in una società che si sta sempre più globalizzando, siano diventati sempre più complessi, più vasti. Come conseguenza anche se si ha il fuoriclasse, imprenditore o giocatore che sia, si farà sempre più fatica. Ergo, il gioco di squadra comincia ad essere una necessità. E non a caso sta divenendo un concetto di cui si parla molto nelle aziende”.

    Quale motivazione, in un mondo sempre più orientato all’individualismo, spinge a creare un gioco di squadra?

    “Essenzialmente perché conviene a chi ne fa parte. Anche se ragiona da egoista. Per la stessa essenza del gioco di squadra: la tattica. La tecnica è solamente lo strumento. Un buon sistema tattico permette di mettere in evidenza i miei pregi e nascondere i miei difetti, e, contemporaneamente, sottolineare i difetti dell’avversario e neutralizzare i suoi pregi”.

    E’ la tattica, allora, il valore aggiunto del giocare in una squadra?

    “Esattamente, perché anche se un giocatore è bravissimo c’è sempre qualcosa in cui non è molto abile. E tramite il gioco collettivo si riesce a far emergere il meglio di ognuno, sopperendo ai suoi difetti con le doti di un altro. Un gioco di squadra che non faccia questo applica una tattica sbagliata. Inoltre continuando a tarpare i pregi di un individuo, alla lunga, questi si stacca dalla squadra. In un club sportivo può essere sostituito, ma in un’azienda, dove la mobilità è decisamente più bassa, può diventare un problema serio”.

    E come si mantiene un individuo all’interno della squadra?

    “Non certo con discorsi moralistici. Servono criteri più utilitaristici e pragmatici: deve intravedere la convenienza dello stare nel gioco di squadra, traendo i maggiori benefici personali giocando insieme a compagni che nascondano i suoi difetti ed esaltino invece i suoi pregi”.

    Da dove inizia, quindi, la costruzione di una squadra?

    “Dall’avere chiaro l’obiettivo. La seconda è di avere un gioco ben delineato, conosciuto da tutti”.

    Che cosa significa?

    “Significa che la metodologia, lo stile di lavoro e di gioco, devono essere chiari a tutti, e non soltanto al capo. Molti concepiscono il gioco di squadra come: “io penso, loro eseguono. E chi non esegue non possiede spirito di squadra”. Le vere squadre non sono così. Il ruolo dell’allenatore consiste nel saper costruire un gioco in collaborazione con i giocatori”.

    Ed ecco il ruolo dell’allenatore. “Uno non è un grande allenatore quando fa muovere un giocatore secondo le proprie intenzioni, ma quando insegna ai giocatori a muoversi per conto loro. L’ideale assoluto, che come tale non è mai raggiungibile, viene nel momento in cui l’allenatore non ha più nulla da dire, perché i giocatori sanno già tutto quello che c’è da sapere. Tutti devono conoscere, oltre alla tecnica, come si gioca, la tattica, insomma”.

    La figura dell’allenatore è quindi assimilabile a quella di un capo?

    “E’ indubbiamente un ruolo di comando. Deve essere in grado di assumersi sulle proprie spalle i rischi. La tattica deve essere condivisa da tutti, anche tramite un contraddittorio. Se non c’è accordo tra tutti, cosa si fa? Qui entra in gioco il capo: ebbene, decide lui, perché non si può vivere nel conflitto. Il capo si assume le sue responsabilità, cercando di sbagliare il meno possibile. Un margine di errore esisterà ovviamente sempre, l’essenziale è esplicitarlo ben chiaro in precedenza”.

    Squadra e gruppo, non sono la stessa cosa.

    “No, e non vanno confusi. Il gruppo è l’elemento alla base della squadra. Il gruppo si forma svolgendo un’attività in comune: ad esempio, una classe scolastica. Nel gruppo l’individuo ha dei ruoli, ma non ben delineati, attribuitigli spontaneamente dagli altri componenti. Inoltre non c’è un unico leader, perché viene scelto a seconda dell’attività svolta. Il gruppo è un’entità propria: ciò significa che la sua caratteristica non deriva dalla somma delle caratteristiche degli individui che compongono il gruppo, ma bisogna ricercarla nelle dinamiche che si creano al suo interno. E’ necessario verificare come ciascun individuo funziona nel gruppo e non come è fatto, se ha talento, oppure se ha un certo carattere, o se è coerente ad un certo metodo di lavoro”.

    Che cosa, allora, caratterizza una squadra rispetto ad un gruppo?

    “I ruoli, che devono essere ben definiti. In funzione del tipo di gioco che si vuole fare, della tattica che si intende applicare. E’ inammissibile, ad esempio, che un terzino vada a fare la punta soltanto perché il centravanti non segna. Questo implica accettare anche i limiti, i difetti, gli errori dei compagni. Ciascun giocatore deve avere e rispettare il ruolo assegnatogli dall’allenatore, dal capo, dal vertice”.

    Iniziano i problemi per l’allenatore.

    “Il capo fa parte dei ruoli prestabiliti, il suo è quello di comandare, istituzionalmente. E’ necessario differenziare tra capo e leader. La leadership si guadagna con il consenso, si deve instaurare un’autorità morale per comandare. Il leader lo stabilisce il gruppo, non ha un ruolo assegnato, ad esempio, da un organigramma. Restando nello sport, ci sono allenatori che non sono leader e che utilizzano quelli che si vengono a creare in modo naturale all’interno del gruppo dei giocatori. Un capo perde la stima della squadra soprattutto quando non rispetta i ruoli altrui, e non quando non è un leader”.

    Quando però c’è qualcosa che non funziona è difficile rispettare i ruoli.

    “Tutto dipende dal clima creato dal vertice, dai capi, sul modo di interpretare un errore. E’ in caso di difficoltà che si vede se c’è davvero lo spirito di squadra. Quando le cose vanno bene è semplice rispettare i ruoli, quando invece vanno male si innesca un meccanismo basato sul tentativo di dimostrare la propria innocenza, tra mille alibi e giustificazioni, e la colpevolezza degli altri. Il problema di fondo è che l’errore viene visto come una dimostrazione d’incapacità e non come degli strumenti d’apprendimento”.

    Ha parlato spesso di cultura degli alibi.

    “L’alibi, oltre a distruggere l’armonia, impedisce di progredire, di imparare. E’ una situazione che nella mia esperienza ho trovato ovunque. L’errore segnala la necessità di apportare modifiche, la scusa, invece, impedisce di mettere in moto delle risorse che, a volte, non si sa neppure di avere”.

    Nel romanzo ‘I Promessi Sposi’ di Alessandro Manzoni, Don Abbondio si giustifica dicendo: “Se uno il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare”. Quanto contano le motivazioni?

    “Affinché i ruoli, il gruppo, la squadra funzionino è chiaro che la motivazione è un elemento fondamentale. Che non deve essere astratta, culturale o morale. Ci sono tre tipi di motivazione: quella di base, quella economica e quella della sfida”.

    In che cosa consiste la motivazione di base?

    “Fare ciò che piace. Di conseguenza, quando si costruiscono le squadre, bisogna scegliere gente a cui piace quel ruolo. In ogni modo è possibile migliorare le condizioni di lavoro, l’ambiente (ad esempio un ufficio accogliente, la comodità per raggiungere il posto di lavoro), concedere gratificazioni, al fine di rendere più soddisfatti di ciò che si svolge. In questo gli americani sono dei maestri, per quanto li riguarda: meglio si vive, più si rende. In Italia c’è un disinteresse assoluto per questi argomenti. Un buon allenatore deve cercare di mettere, se può, un giocatore nel posto in cui sa che gli piace stare”.

    La motivazione economica, invece.

    “E’ molto importante, i premi, le incentivazioni sono un ottimo stimolo. Ma diventa negativa quando si richiede di far gioco di squadra e poi il guadagno va soltanto alla proprietà”.

    Lei ha parlato di sfida…

    “Questa motivazione per me assume un ruolo fondamentale, non tanto riguardo agli impegni quotidiani, quanto ai grandi compiti. Credo che la gente, soprattutto in una società decisamente omologata come l’attuale, abbia bisogno delle emozioni, di sentirsi parte di qualcosa che va al di là della routine di tutti i giorni, di competere per un’impresa straordinaria. Questo a maggior ragione nel mondo del lavoro”.

    Come si fa ad avere la mentalità vincente?

    “A questa domanda io rispondo sempre con un paradosso: vincendo! Il problema è: come faccio a vincere? Esistono tre tipologie. La prima vittoria è quella contro i propri limiti e i difetti. La funzione del capo è fondamentale: deve porre obiettivi facilmente raggiungibili, in maniera da far fare un passo alla volta e, soprattutto, deve dare aiutare a risolvere i difetti. E poi superare le difficoltà è un allenamento. Questa è la seconda tipologia di vittoria. Le difficoltà non devono più essere viste come un qualcosa che mi impedisce di fare, ma come la possibilità di allenarmi a superarle”.

    E la terza vittoria?

    “E’ quella contro gli avversari, i concorrenti. Che va programmata: da una parte affrontando avversari che siano alla mia portata, dall’altra, contemporaneamente, confrontandomi contro i migliori, anche se perdo. Questo mi serve per stabilire un punto di riferimento alto. A volte si impara di più perdendo contro un avversario forte piuttosto che vincendo da uno debole”.


  4. Lavoro tattico e fisico:è possibile?

    23 marzo 2011 by Emiliano Adinolfi

     

    Lavoro tattico e fisico:è possibile?

    Pensiero condiviso da tutti i giocatori, da molti allenatori e da quei preparatori che vedono nel lavoro tecnico tattico una buona occasione per far lavorare in maniera specifica e motivante i calciatori.

    In un precedente articolo apparso su questo blog ho riportato i risultati di un breve studio improntato sul confronto tra lavori “ a secco” e lavori con la palla, risultati che sostenevano la validità del lavoro con la palla a patto che lo stesso fosse svolto con determinati criteri e monitorato. Le conclusioni del lavoro infatti determinavano una pari possibilità, tra lavori con la palla e senza palla, di raggiungere l’obiettivo organico ricercato in un determinato allenamento, con l’unico limite legato alla possibilità di controllare il carico effettivo del lavoro con la palla. A questo punto aggiungerei, provocatoriamente, una nota: il 75-80% del complessivo lavoro di un calciatore viene svolto con la palla e solo il 20-25% senza. Se anche di questa parte posso sapere tutto (Potenza sviluppata, velocità, frequenze cardiache, etc.), cosa so dell’altra e più corposa parte se non la verifico? E, soprattutto, quanto può essere determinante il contributo di quel 20-25% rispetto al 75-80′% nel risultato finale?

    Per cercare di capirne un po’ di più, con altri colleghi abbiamo iniziato ad indagare, da diverse stagioni, su quali possano essere le modalità e le variabili che maggiormente incidono sull’orientamento delle esercitazioni con la palla.

    Numero di giocatori, numero di tocchi, dimensioni del campo, regole particolari, ciascuna di queste voci può determinare teoricamente un cambiamento radicale nell’intensità dell’esercitazione, provocando un cambiamento degli obiettivi del lavoro. Ma in quale misura queste caratteristiche tecniche incidono sul risultato finale dell’esercitazione? In un lavoro precedente effettuato con dei giocatori , avevo verificato che la dimensione del campo ha piu’ influenza sull’intensità del lavoro che non il numero di tocchi. Un possesso palla 4 contro 4 in un campo 20x40m effettuato per 3’, è molto piu’ impegnativo ad esempio (dal 92 al 100% HRM) rispetto al medesimo lavoro svolto su di un campo 20x30m (dal 84 al 95% HRM), anche se, è giusto ricordarlo, l’impegno muscolare nel secondo caso risulta, a sensazione del giocatore, maggiore.
    Collaborando con diversi allenatori e con squadre di diverse categorie, ho provato a verificare sul campo se alcune esercitazioni, che venivano abitualmente utilizzate come mezzi allenanti per determinate qualità fisiologiche, fossero realmente in grado di centrare l’obiettivo. Dovendo effettuare un lavoro condizionante per incrementare la capacità lattacida specifica e la potenza aerobica, a 60 giocatori (40 professionisti, appartenenti a due diversi club della serie C1, e 20 dilettanti) dei quali era nota la massima frequenza utile e la frequenza di soglia (dati ottenuti attraverso il test di Leger) è stata proposta un’esercitazione di possesso palla 5 contro 5, in un campo 20x40m, della durata di 4’ con 2’ di recupero tra ciascuna esercitazione, per un totale di 3 esercitazioni per ciascun gruppo.
    Durante il lavoro, avevamo come obiettivo quello di far lavorare i giocatori tra l’85 ed il 95% della massima frequenza cardiaca (HRM). Tale lavoro è stato effettuato per 3 allenamenti da ciascun gruppo, a distanza di una settimana uno dall’altro. Con gli allenatori avevamo stabilito che, durante l’esercitazione, avremmo chiesto ai giocatori di eseguire l’esercitazione ad un tocco, a due tocchi ed a tocco libero in modo da, così si supponeva, rendere piu’ o meno impegnativa l’esercitazione. Normalmente, infatti, si pensa che un’esercitazione con la palla ad un tocco sia piu’ impegnativa di una a tocco libero. Con il sistema di telemetria cardiaca Hosand TM 200 potevo monitorare l’intensità del lavoro e suggerire all’allenatore se e quando modificare il numero di tocchi.
    Con tutti e tre i gruppi di lavoro abbiamo verificato che, a differenza di quanto si era supposto, non vi era una marcata differenza tra le fasi ad un tocco, a due tocchi od a tocco libero, indipendentemente dall’ordine in cui le stesse venivano proposte. Il lavoro veniva comunque svolto dalla maggior parte dei giocatori all’interno dei limiti cardiaci richiesti, con differenze che oscillavano dal 1 al 3% tra le diverse fasi ma non in modo costante (in alcuni giocatori l’impegno maggiore non coincideva sempre con la stessa quantità d tocchi imposta). Nei professionisti c’era effettivamente una leggera differenza a favore del lavoro ad un tocco ma in misura poco significativa (meno del 2%), mentre nei dilettanti si è verificato l’esatto opposto: il lavoro piu’ faticoso risultava essere quello a tocco libero, con una differenza di poco superiore al 3% rispetto al lavoro ad un tocco. Abbiamo ipotizzato che tale risposta nei dilettanti possa essere dovuta, oltre che al maggior dispendio energetico che la corsa con la palla impone, anche allo scarso livello tecnico dei giocatori che, compiendo molti errori nelle esercitazioni ad uno e due tocchi, trovano nel lavoro a tocco libero l’unico momento in cui realmente impegnarsi per recuperare la palla.

    Pur limitatamente ad esercitazioni di possesso palla, questi dati ci forniscono la possibilità di suggerire all’allenatore l’utilizzo di una variabile (la dimensione del campo) piuttosto che un’altra (il numero di tocchi) per determinare una maggiore o minore intensità del lavoro.

    Altri lavori molto interessanti sono stati sviluppati da altri gruppi di lavoro su temi simili, con risultati particolarmente interessanti dal punto di vista pratico (vedi anche l’articolo: Variabili che influenzano l’intensità nelle esercitazioni con la palla di Ermanno Rampinini, Franco M. Impellizzeri, Carlo Castagna, Agostino Tibaudi e Samuele Marcora.

    Tratto da calciatori.com


  5. La tecnologia moderna nel calcio: match analysis.

    22 marzo 2011 by Emiliano Adinolfi

    522481_10151182265743238_873418456_n

     

     

     

     

     

     

     

    Lo sviluppo della tecnologia, ha accompagnato lo studio della metodologia d’ allenamento nel mondo del calcio. La match analysis è il massimo sviluppo dell’analisi della prestazione dello sportivo. Chiunque si sia trovato, per passione o per lavoro, a dover seguire uno o più atleti di qualsivoglia disciplina si sarà trovato nella situazione di annotare su migliaia di fogli ciò che accadeva durante la gara, in modo da poterla successivamente analizzare senza nessuna influenza emotiva. L’evoluzione di questa tecnica, che spesso non era adeguata ai tempi della gara, consiste nella nascita delle schede di valutazione, ovvero fogli prestampati che consentivano all’operatore di annotare attraverso semplici simboli standardizzati l’esito di varie situazioni predeterminate. In seguito, l’utilizzo delle prime videocamere per registrare la prestazione ha offerto la possibilità di rivedere la gara più volte e, oltre ad essere riusciti ad eliminare l’errore di valutazione dell’osservatore, si sono moltiplicati i parametri rilevabili fornendo ai tecnici una immagine più completa della prestazione. Arrivati a questo stadio dello sviluppo i problemi principali di questo tipo di tecnica di valutazione sono costituiti dai tempi di osservazione troppo lunghi e dal tipo di analisi da effettuare per arrivare a dei risultati concreti in breve periodo. La soluzione riguardante l’analisi dei dati è stata superata con l’avvento dei PC e dei primi sistemi operativi: inserendo i dati in appositi programmi si ottenevano rapidamente quelle informazioni richieste dall’operatore. Al giorno d’oggi dove elettronica e informatica non sembrano avere più confini, è bastato unire la videoregistrazione della gara ad un sistema operativo adattato per diminuire anche i tempi di osservazione. Con i sistemi moderni bastano poche ore dopo la gara per fornire direttamente al tecnico interessato i parametri che si ritengono essenziali per l’interpretazione della performance. I sistemi di analisi rotazionale computerizzata automatica hanno portato notevoli vantaggi al mondo sportivo fornendo ai tecnici informazioni sempre più dettagliate riguardo la prestazione fisica, tecnica e tattica. Tali sistemi di valutazione sono legati essenzialmente al riconoscimento della posizione e del movimento in campo del soggetto (velocità, distanze percorse, traiettorie) e al rilevamento del suo rapporto con i compagni, gli avversari e la palla (se presente nel gioco). Tutti questi dati vengono ottenuti grazie ad un complesso sistema di telecamere poste attorno all’area di gioco interfacciate con sofisticati programmi informatici. Grazie alla match analysis gli addetti ai lavori si trovano a disposizione una nuova tipologia di dati da elaborare. In numerose discipline la conoscenza specifica dei tempi di gioco, della velocità d’azione e delle distanze percorse dai singoli atleti e principalmente la possibilità di correlare tra loro questi valori e di confrontarli tra le varie gare, ha riacceso il dibattito riguardante la metodologia di allenamento. Soprattutto gli sport di squadra, dove si ha un maggior sviluppo commerciale, stanno traendo molti vantaggi dall’analisi computerizzata delle prestazioni anche se con obiettivi differenti. Nel tennis è già da alcuni anni che si studia la prestazione dell’atleta visualizzando le zone in cui ha tirato il maggior numero di volte, la durata degli scambi, il decremento della forza di battuta; nel baseball e nel basket, sport dove è regina la statistica, si tiene conto del rapporto tra minuti giocati e minuti in panchina, dell’incidenza del singolo giocatore sul punteggio, del numero di salti o corse. Nel volley la match analysis è usata principalmente a supporto del gioco tecnico-tattico, lo scout conosce i dati di tutte le avversarie relativi a come si sviluppa il gioco ad un determinato punteggio o in certe situazioni, questo permette di allenare la squadra ad adeguarsi nel minor tempo possibile. Tutti questi sport stanno incrementando il livello della prestazione fornita dagli atleti e questo porta ad un seguito maggiore da parte del pubblico Questo feed back positivo stimola gli addetti ai lavori a sfruttare appieno le potenzialità della match analysis in quanto oltre ad un incremento degli introiti societari si trovano atleti che sopportano meglio lo sforzo, che migliorano tecnicamente e che tatticamente sono più disciplinati. Nel mondo del calcio italiano la match analysis ha fatto il suo ingresso nei club più balsonati da alcuni anni, ma anche nei dilettanti, molte squadre usano la registrazione televisiva locale per rivedere gli errori commessi in gara.